In questi giorni compaiono nei quotidiani italiani articoli che sottolineano il tema dell’abbigliamento nelle sedi parlamentari, sollevato proprio da alcuni membri del Parlamento, quando il rialzo termico estivo ha indotto alcune parlamentari donna ad alleggerirsi in modo giudicato eccesivo. L’articolo più acuto è quello di Francesco Verderami sul Corriere della Sera del 16 luglio.
Questa Accademia si è spesa più volte, ed in più ambienti, per ricordare che il vestiario nelle sedi pubbliche non riguarda l’eleganza, l’ etichetta o il galateo, ma, piuttosto, è regolato dal cerimoniale. Cioè da quell’insieme di regole che definiscono il comportamento istituzionale, nelle sue varie espressioni, incluso l’abbigliamento.
Ora che l’argomento torna di attualità, si vuole ancora sottolineare che l’abbigliamento di chi esercita funzioni pubbliche non è “libero”, e rimesso al proprio personale stile di vita o alla moda del momento, o, come in questo caso, al clima meteorologico ed alle temperature ambientali. Infatti, chi esercita funzioni pubbliche deve rispettare, in qualunque occasione ed in ogni condizione, le forme pubbliche, iniziando a mostrarsi disponibile a ciò proprio indossando abiti che sottolineino il livello della funzione esercitata e la dignità del luogo ove egli la esercita.
Sappiamo che in molti casi per alcune attività pubbliche è richiesta addirittura una divisa, ma anche coloro che non sono chiamati ad indossare un abito codificato, devono comunque apparire al cittadino impegnati a presentarsi con una immagine decorosa, ed, in alcuni casi addirittura solenne.
Verderami ricorda come una fuga dai rituali di vestiario si era già avuta nel ’68, quando abbandonare giacca e cravatta era espressione esterna di una nuova libertà. E già allora si era dovuto combattere nelle sedi istituzionali per mantenere un adeguato livello di formalità degli abiti utilizzati dai parlamentari.
Ma, giustamente, viene sottolineato che lo scivolamento sessantottino era ideologico, mentre quello odierno è soltanto dovuto a trascuratezza, sciatteria e ignoranza di regole.
Personalmente vorrei aggiungere che lo scivolamento odierno dello stile può essere anche conseguenza di una scelta voluta, per far apparire il politico protagonista più prossimo all’elettore, del quale egli cerca di calamitare il consenso anche attraverso una contiguità dell’apparenza. Questa ipotesi ,che si vede avverata oggi anche ad alti livelli istituzionali, evidenzia una colpa ben più grave della semplice sciatteria indicata da Verderami, perché denota una scelta consapevole di violazione delle regole, sebbene soltanto formali, che risulta allarmante per la democrazia, nella quale la forma è sempre sostanza.
Nel mezzo dell’episodio recente, si è poi introdotta anche la querelle di “genere”, per critiche rivolte alle sole deputate donna, con atteggiamento giudicato, per tal fatto, sessista.
In conclusione è nostro compito ribadire che lo stile istituzionale, anche nell’abbigliamento, deve essere rispettato da tutti coloro, uomini o donne, che esercitino funzioni pubbliche, ma anche da coloro che svolgono semplici servizi pubblici, se questi li espongono al contatto con il cittadino, il quale può ben pretendere di non essere trascurato.
Massimo Sgrelli